
Ritmo, danza, vita: eterno ritorno
TAMARA DONATI
Serie: Figure in movimento 1985-2024
testo critico di Ugo Fortini

Un’impronta profonda animerà e caratterizzerà, già dai lontani inizi, l’opera pittorica di Tamara Donati. Le sue prime ricerche, volte alla suddivisione spaziale della composizione sul supporto rispetto alle forme e alle cromie, che potremmo definire tempo della scansione, dell’equilibrio o della sezione aurea, costituiranno l’ossatura tecnica ed emozionale indispensabile (si confrontino le opere: chine colorate, acquerelli, collages, pastelli ad olio, ecc. di quel periodo) per affrontare e proporre una sintesi pittorica, che allora la interessava, della dialettica tra il cubismo, che Apollinaire chiamerà orfico, del Delaunai e della Terk e il futurismo di connessione del Severini.
La lezione degli orfici, sia cubisti che futuristi, il loro dinamismo, la loro poetica che Boccioni chiamerà trascendentalismo fisico, influenza la Donati, tendente a rispecchiarsi nelle parole del Delaunai: <E’ felicemente nato un linguaggio dello spazio, un linguaggio ritmico e sensibile> (…) <I contrasti di colori simultanei sono rapporti di colore mobili. Il colore è funzione della forma e non è descrizione: essa porta in se stessa le sue leggi.> (…) <Nella pittura colorata è il colore, con i suoi contrasti, che forma l’ossatura dello sviluppo ritmico>.
Non avranno minore influenza, in quella fase scientista di lirismo pittorico attraversata dalla Donati, le lapidarie parole scritte dal Severini su “De cubisme au classicisme”: <Voler trascurare ogni mezzo metodico basato sulla scienza è assurdo e non può condurre a nulla>.
Tuttavia non è arbitrario pensare che la Donati maturasse, proprio in quel tempo, il superamento di quella prima fase e tendesse l’altro orecchio alla famosa esclamazione di Matisse: <Troppo cubismo!>, o meditasse già sulle parole scritte da Ozenfant su “L’E’lan”: <Se è vero che l’attrattiva di una forma è indipendente dal significato, è anche vero il contrario e cioè che il significato nulla toglie alla bellezza plastica>.
E’ l’epoca della maturità artistica che la Donati compirà a Firenze; dei primi veri e propri dipinti ad olio su tela; dell’abbandono dei soli puri schemi compositivi; dei primi interessi al significato ideologico del quadro.
Nascono in quel periodo (1985) Uomo, natura e progresso e Ritmo; opere che indicano già tutte le future suggestioni.
<Lontana (come ella stessa dirà) dal rappresentare formalmente la realtà circostante, intendevo, però, stabilire un rapporto fra il mio mondo interiore e la materia pittorica: ne nacque una realtà immaginata in maggior parte rifacentesi al mondo poetico della danza ed ai relativi temi musicali>.
Siamo ormai nel 1986; la Donati compie il primo quadro sul tema di Equitazione (dell’89 sarà il secondo dove, la struggente poesia dell’oriente traspare nell’abbandono di un ritorno di cavalieri al destino immoto): dipinge Equilibrismo e Al teatro delle marionette, due opere apparentemente antagoniste: la prima, condotta da un segno continuo, volitante, verte sull’alchimia tonale e il moto incessante, mirando a un risultato (ampiamente raggiunto) di sintesi e compostezza estetica; la seconda, pone l’accento sul premeditato contrasto fra giometrismo e figurazione dissimulata, puntando verso uno studiato gioco colorale di gamme opposte mimetizzate nel processo di scomposizione del fondo: ricorrente motivo nelle opere della Donati.
A Strauss dedica Danubio blu, un quadro dove, al centro dell’attenzione, vi è un vortice di colori e di luci che creano la suggestione del movimento e una stupenda sintesi plastica.
Dipinge l’emozionale azzardo di Cenerentola, dove, ancora, i volumi sono stati scomposti con tagli netti, in modo affine alle soluzioni cubiste; l’evocazione è affidata qui ai colori in massima parte complementari, netti e paralleli.
Fra natura e civiltà è un quadro che fa parte di una serie di dipinti del 1987. In quest’opera, dove la ricerca formale si fa più quieta e la metafora più disvelata, si vive l’aria del neo-vitalismo Bergsoniano e una sorta di metafisica vita notturna. Un prepotente slancio di forme è, invece, racchiuso in Bolero (dedicato a Ravel), anteponente alla bellezza l’entusiasmo meccanico e una frenetica accelerazione del ritmo e dei colori. I quadri Schiaccianoci e Il lago dei cigni sono dedicati agli omonimi balletti di Cajkovskij; a Wagner è dedicato La cavalcata delle Walkirie, stupendo dipinto dove aleggia, potente e inquieta, la magia di un rito collettivo; Il volo del calabrone per ricordare Rimsckij-Korsakov, Le quattro stagioni per rivisitare Vivaldi.
Di quel tempo è anche la Danza nelle acque, dipinto nel quale sono espresse due delicatissime figure che con ritmo sinuoso ascendono palpitanti dall’equoreo intrico.
Del 1988 sono: Samba, Twist e quel dolce “controcanto” marcato da delicate inostrature di Omaggio a Botticelli.
Dell’89 sono Ballerina classica e Dafni e Cloè; più tardi riproporrà, in nuova versione, Il lago dei cigni.
Del 1991 è la complessa trilogia di Giulietta e Romeo: l’incontro, l’amore, la morte e anche quella su variazioni cromatiche sullo stesso soggetto: Passo di danza con i riflettori giallo, blu, rosso.
Scrivere di queste importanti opere, di quell’ampliamento grammaticale che si pone in divenire alla lettura tematica e forse si cela dietro un’alta lezione di stile esteticamente scritta in spazi e scenari abilmente decisi, non è possibile in quest’angusto spazio; come non è ancora possibile un commento su Ecce Homo, opera in “fieri” d’impronta cimabueana, che si svolgerà su sei pannelli, quattro verticali e due latero-orizzontali, che già prelude ad una nuova creatività e forse a decisivi rinnovamenti oltre i confini del già cerziorato.
Possiamo però dire che questi quadri sono modulati e sapienti arpeggi che (per usare un’espressione musicale) serrano in variazioni sullo stesso tema: si costituiscono, s’inalzano come un monumento plastico, lirico, a volte funebre, ma più spesso vitale, alla poetica del ritmo, della danza, sublimando un eterno ritorno in cui l’eroica fede nell’arte, come difesa dalla morte, simboleggia l’orfica speranza insita nell’immenso respiro del creato, dove (come direbbe Rilke) tutto si trasforma e trasfigura filtrando il male nel bene e la morte nella vita.
E’ una donna colta oltreché una singolare artista la Donati! Ama la poesia, pratica la danza e il teatro; interpreta volentieri Brecht e Garcia Lorca, ascolta musiche di Prokof’ev e Musorgskij, è interessata dai contemporanei non meno che dai classici. In pittura “predilige” Kandinsckij di cui ben conosce la tematica sulle forme, sui colori e sui significati astratti, da lui condotta su “Lo spirituale nell’arte”. Ammira Klee, Mirò, Chagall e naturalmente Matisse per l’emblematica “joie de vivre” racchiusa in tutta la sua opera.
Non finiremmo mai di scrivere traendo dagli appunti, su quanto la Donati mi ha detto durante la mia visita al suo studio. <Ho eletto ad atelier questa stanza; Là — c’è spazzavento; in cima sono poste le ceneri di Curzio Malaparte>.
Mi viene voglia di dirle che ho avuto occasione di conoscere codesto “genius loci”; ma mi trattengo, per riserbo.
Continua a mostrarmi le sue opere e intanto di dice: <La scelta di coinvolgere nella pittura la musica e la danza nasce in me dal fatto che queste tre espressioni artistiche iniziano insieme all’uomo e alla sua esigenza di comunicare; cioè come forma di linguaggio primordiale, indispensabile, approdato a noi sottoforma di espressività artistica. I soggetti dei miei quadri, comunque, sono molteplici, come molteplici sono i miei interessi di vita e le cose che mi attraggono.
In alcuni casi tendo ad esaltare (come aspetto simbolico-ideologico) la natura a dispetto delle moderne tecnologie, a volte rivolgo la mia attenzione alla sfera dei sentimenti umani che come sintesi raffigurativa si risolvono in abbracci, nella caratterizzazione di alcuni personaggi particolari o in aspetti più profondi del pensiero e dell’inconscio in cui mi diverto ogni tanto ad indagare.
Protagonista del quadro, comunque, è sempre l’uomo, la cui essenzialità interiore cerco di esprimere nella sintesi delle linee che ne compongono la figura: ne derivano forme geometriche in correlazione fra di loro, spesso deformate in ellissoidi capaci di allargarsi, restringersi, deformarsi ed estendersi all’infinito>.
La lascio parlare. Mi accorgo che fra l’altro la Donati ha una eloquenza pacata, ma decisa, puntuale: “rara avis” sia pure fra gli artisti come lei, di alto prestigio.
Le domando come prendono vita nelle sue opere i segni e le cromie ed ella mi dice: <Il segno, come schizzo iniziale, nasce liberamente per venir poi ricondotto al rigore geometrico e al controllo dell’andamento generale. Si potrebbe dire che è come un filo che parte da una matassa e si distribuisce sulla superficie piana formando un segno, senza interrompersi. Una volta definito il corso delle linee, la stesura dei colori ha come partenza la massima libertà: può iniziare, infatti, da qualsiasi punto. Le campiture successive vengono di conseguenza ad esso: così com’è per le linee, lo stesso è per la scelta delle tonalità (primarie e secondarie, tenui o brillanti) le quali si formano man mano in un gioco di richiami reciproci entro i confini geometrici precedentemente stabiliti. Come posso dire?… quando capisco (sento!)… che la poetica della realtà può rivelarsi e racchiudersi attraverso la sintesi gestaltica in senso di forma totale o geometrica in senso parziale, la dipingo>.
Scorro le opere che la Donati mi mostra ad una ad una e provo la gioia; l’incanto, che esse promanano (sensazione, ahimè, sempre più rara da provarsi da parte di un critico dei nostri giorni che indaghi sull’operato dei nuovi artisti). Noto la pulsione, tra i perenne ondeggiare, il fluire dinamico, ubiquitario e quindi di non luogo, che caratterizza la pittura di Tamara Donati; e m’accorgo che è davvero danza; e come la danza non circoscrivibile, in quanto non si può fermare. Si costituisce e si determina, diviene movimento da un enigma e nell’enigma, “flatus vocis”, s’occulta, si dissolve dispare.
Anche il segno urgente e continuo (ora vivace ora tenue, diacronico, che non si chiude in sé) fluisce come l’asintoto palpito creatore e distruttore d’ogni forma; danza. Evoca Dioniso, il contrapposto dell’Eros platonico, l’ebbro danzatore metaforico e proteiforme che <ha ben il suo orecchio (dirà Nietzsche) nella punta dei piedi>.
Non poche analogie, tra la poetica della Donati e il pensiero dei grandi dell’età moderna, montano alla mia mente, stimolate dal veder queste tele esterse, ammiccanti a profonde intuizioni che svanano l’apparenza per dilatare nell’arcano dell’universale ontologico, ritmico e danzante. Mi riportano a Bataille, alla sua affermazione insinuante: <Il deserto ha la sua melodia; è un ritmo primordiale di danza che si propaga dal silenzio>.
La Donati capta, di codesto primigeneo rito, non il fatto parvente, esteticamente rappresentativo, ma l’animica seduzione, l’intima ed esclusiva bellezza da cui tutto attinge, anche il codice segreto della sua pittura magica, nella quale il pensiero, i “logoi”, esondano in figure danzanti attraverso una sorta di conversione musicale del linguaggio, che s’articola (e disarticola) in movenze, atti, ritmi, mimiche, trasparenze evocative, sino all’estasi, fino a quella verità sparente nella verità.
Tema (questo del modello, “archetypon”, del ritmo-danza: fondamentale nella sua opera a cui tutto rapporterà) caro a Nietzsche; tanto da fargli dire: <il mio stile è la danza, un gioco di simmetrie d’ogni specie e un balzar oltre e un beffarsi d’esse> (…) <Un pensiero che danza, che crea se stesso attraverso un flusso e riflusso governati dalla legge inflessibile del ritmo. E che cosa più del ritmo tiene allacciati gli dèi alla volontà degli uomini?>.
Voglio concludere con una domanda parallela a quella nietzscheana: e quale arcano psicologico e formale più coinvolgente di quello espresso nell’opera della Donati (affine a quello nietzscheano), che nel diuturno valicare dal sensibile all’emozionale, dal fisico allo spirituale diventa commozione, forse mito, può chiamarsi arte?
testo critico di Ugo Fortini
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